Recensione: Autunno tedesco di Stig Dagerman


Titolo: Autunno tedesco
Autore: Stig Dagerman
Data di pubblicazione: 24 gennaio 2018
Genere: Reportage storico
Editore: Iperborea
Pagine: 159


TRAMA

Nel 1946 furono molti i cronisti che accorsero in Germania per raccontare quel che restava del Reich finalmente sconfitto, ma dal coro di voci si distinse quella di uno scrittore svedese di ventitré anni, intellettuale anarchico e narratore dotato di una sensibilità fuori dal comune, inviato dall'Expressen per realizzare una serie di reportage poi raccolti in un libro che è considerato ancora oggi una lezione di giornalismo letterario. Mentre le testate di tutto il mondo offrono il ritratto preconfezionato di un Paese distrutto, che paga a caro prezzo gli orrori che ha seminato e dal quale si esige un'abiura convinta, Dagerman, libero da ogni pregiudizio ideologico e rifiutando ogni generalizzazione o astrazione dai fatti concreti e tangibili, si muove fra le macerie di Amburgo, Berlino, Colonia, su treni stipati di senzatetto e in cantine allagate dove ora vivono masse di affamati e disperati, cercando di capire nel profondo la sofferenza dei vinti. Ne emerge un quadro molto più complesso di quello che è comodo figurarsi. Mentre ci si accanisce a cercare nostalgici nazisti, Dagerman si chiede come può un padre che vede morire il figlio di stenti dichiarare che ora sta meglio di prima; mentre le potenze occupanti pensano a punire e ad allestire processi, Dagerman descrive la «messinscena» di una denazificazione di facciata e la morte spirituale di un Paese che è troppo impegnato a lottare ogni giorno con la morte per riflettere sui propri errori, perché «la fame è una pessima maestra» per educare i colpevoli. Con il suo acume analitico e la sua empatia capillare, Dagerman scava nelle contraddizioni della Germania postbellica offrendoci un manifesto di accusa contro tutte le guerre, e una riflessione amaramente attuale sul potere, la giustizia e lo Stato.
Con un contributo di Giorgio Fontana.


RECENSIONE


Quando ho deciso di acquistare Autunno tedesco e di iniziare un nuovo anno di letture leggendolo, non immaginavo quanto giusta si sarebbe rivelata la mia scelta. Ho perso il conto del numero di post-it utilizzati per segnare i passaggi che mi hanno sorpresa e destabilizzata, facendomi riflettere su una delle pagine più mostruose dell’umanità sotto un’altra ottica.
Siamo nel 1946, in Germania. Siamo nel pieno di un autunno tedesco particolarmente gelido, e stiamo viaggiando assieme al giovane giornalista svedese Stig Dagerman per le città bombardate dagli alleati. Siamo ad Amburgo, Berlino, Hannover, Dusseldorf, Essen, Colonia, Francoforte, Heidelberg, Stoccarda, Monaco, Norimberga e Darmstad. E stiamo osservando la Germania post nazismo con gli occhi di un ragazzo di ventitrè anni, occhi “liberi da ogni pregiudizio ideologico”.

Si è chiesto ai tedeschi delle cantine se stavano meglio sotto Hitler e loro hanno risposto di sì. Si chiede a un uomo che sta annegando se stava meglio quando era sulla banchina e lui risponde di sì. Si chiede a qualcuno che fa la fame con due fette di pane al giorno se stava meglio quando la faceva con cinque, e senza dubbio si riceve la stessa risposta. Ogni analisi della posizione ideologica del popolo tedesco durante questo difficile autunno si rivela profondamente errata se al tempo stesso non riesce a fornire un quadro sufficientemente incisivo dell’ambiente, del modo di vivere imposto agli uomini che vengono idealizzati.

Sembra impossibile pensare che possa esistere qualcuno in grado di affermare che si stava meglio quando c’era il nazismo, quanto meno nell’immaginario collettivo. Eppure Dagerman invita tutti a non decontestualizzare simili affermazioni, perché se si considera che a farle sono comuni cittadini senza una casa, costretti a vedere i figli morire di stenti poiché impossibilitati a dargli da mangiare…beh, non sembrano poi così assurde.

Si pretendeva da chi stava patendo questo autunno tedesco di imparare dalla propria disgrazia. Non si pensava che la fame è una pessima maestra. Chi ha davvero fame ed è privo di mezzi non accusa se stesso per la sua fame, bensì quelli da cui crede di potersi aspettare aiuto. La fame non favorisce certo la ricerca delle cause, e chi è permanentemente affamato non riesce a stabilire alcun’altra relazione che la più immediata, per cui in questo caso accuserà chi ha rovesciato il regime che prima provvedeva al suo mantenimento, sostituendolo con un trattamento peggiore di quello a cui era abituato.

In un periodo storico in cui i reportage giornalistici erano finalizzati esclusivamente a soffermarsi sulle sofferenze meritate dalla Germania, Stig Dagerman si assume la responsabilità di uno sguardo puro e sincero, che non accusa ma traspare obiettività, perché “la sofferenza meritata non è meno difficile da sopportare di quella immeritata”. E quindi guarda ai comuni cittadini tedeschi anzitutto come esseri umani sofferenti.
L’autore non manca di soffermarsi inoltre su una netta distinzione, nella sua analisi accurata: una generazione più giovane che non ha conosciuto altro che la dittatura nazista e una generazione precedente che il nazismo lo ha voluto. E si indigna nell’osservare quanto i colpevoli veri, coloro che hanno esercitato le atrocità che hanno portato a queste conseguenze, siano invece liberi di sfuggire a una denazificazione di pura facciata, dietro la quale si nascondono complicità che non vengono rivelate ai più.

Questo libro è magnifico. Rientra nella categoria di reportage storico, ma potrebbe essere tranquillamente un romanzo, grazie alla straordinaria capacità narrativa di Dagerman. L’unica differenza sarebbe però anche la più tristemente ovvia: i fatti narrati, purtroppo, non sono inventati.

Vi lascio con il consiglio di leggerlo e le parole dello stesso autore:

Un giornalista non lo sono diventato ancora e, per quanto ne so, non lo diventerò mai. Non ho voglia di acquisire tutte le deplorevoli qualità che costituiscono un perfetto giornalista. Faccio fatica a capire quelle persone che incontro negli hotel che gli alleati mettono a disposizione della stampa, persone secondo cui un piccolo sciopero della fame è più interessante della fame di molti. I tumulti per la fame sono sensazionali, ma la fame non è sensazionale e quel che pensa la gente affamata e amareggiata diviene interessante solo quando la povertà e l’amarezza esplodono in una catastrofe. Il giornalismo è l’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. Io non la imparerò mai.


A PROPOSITO DELL'AUTORE:
Nato nel 1923, segnato da una drammatica infanzia, considerato il “Camus svedese”, in perenne rivolta contro la condizione umana, anarchico viscerale cui ogni sistema va stretto, militante sempre dalla parte degli offesi e umiliati, incapace di accontentarsi di verità ricevute, resta nella letteratura svedese una di quelle figure culto che non si smette mai di rileggere e di riscoprire. Dal 1946 scrisse quattro romanzi, quattro drammi, poesie, racconti, articoli, sceneggiature di film, che continuano a essere tradotte e ristampate. Bloccato da una lunga crisi creativa e angosciato dal peso delle enormi aspettative suscitate dal suo talento, si uccise nel 1954.




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